Mi chiamo Valentina Ferraro, sul web ``La Musifavolista``, e mi prendo cura di storie, progetti e persone. Voce Narrante, Account Manager per Progetti Creativi e Customer Care Specialist, lavoro come freelance e questo è il posto migliore per conoscermi.

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La voce dei ricordi, come il passato influenza la voce

Le voci e i suoni della nostra infanzia compongono la voce che avremo da adulti descrivendone potenziale e limiti; esserne consapevoli aiuta a gestire la voce.
Ecco quindi che il lavoro sulla voce diventa anche -in potenza- crescita personale, migliorando le competenze del narratore di audiolibri o podcast.

Figli degli anni ‘90 orecchie a me: se ti dico Daria a cosa pensi?
Probabilmente a MTV, a quel periodo storico in cui essere nerd non era figo -anzi venivi bullizzata- oppure alla mitica sigla del cartone animato, vero?
Ecco io no. Io se penso a Daria (che amavo alla follia) in realtà penso a Daria che “gioca” a pallavolo e mi si attivano ricordi terribili perché io alle medie, a pallavolo, facevo schifo.
Ma schifo proprio che quando si formavano le squadre io ero l’ultima a venir scelta ed entravo in squadra sotto sguardi impietosi di disgusto e timor panico della serie “a posto, abbiamo già perso con lei in squadra”
E avevano ragione: se io per facevo bagher partiva tipo coro angelico, eh? Il problema è che se io toccavo la palla, di solito è perché la palla mi aveva colpito; di norma se la palla andava a destra io correvo a sinistra e viceversa.

In realtà questo grande disagio con la pallavolo nasceva da un pool letale di ansia, paura e coordinamento visivo-motorio disfunzionale perché, in pochi lo sanno, ma io ho una miopia veramente molto forte -13,5 nel sinistro e -12,75 nel destro (prima che partano le consuete domande: ho fatto una delicata operazione di microchirurgia oculare nel 2010 -della quale esiste anche una video-esperienza su Youtube con migliaia di visualizzaioni e qui scatta il premio a chi la trova, e quindi ora vedo quasi bene perché in realtà la vista tende comunque a calare, sono presbite, ma va beh bla bla bla)

Tant’è che questa puntata avrebbe dovuto parlare di tutt’altro, ossia di come proteggersi le orecchie dai forti rumori, perché in quel momento ero in una palestra a vedere una partita di volley under 16 e mi stavano esplodendo le orecchie nonostante gli auricolari con abbatittore di decibel (dei quali poi parlerò, appunto, nella puntata a loro dedicata per davvero) ma la verità è che in quella specifica palestra, quella specifica condizione di rumore molto forte mi dava una sensazione fortissima di confusione e disorientamento (perché sono davvero molto sensibile ai suoni) e in qualche modo ho rivissuto quell’ansia che vivevo da ragazzina quando si doveva giocare a pallavolo.
E sai che c’è? Che rivivendo quelle sensazioni, mi sono trovata per un po’ senza voce.

Qualche puntata fa ti accennavo ad un lavoro di musicoterapia con il quale, all’inizio del mio percorso vocale, ho toccato con mano la mia vera voce, lavorando proprio sulla memoria sonora e vocale.
Stamattina ho fatto un lavoro sulle mie parole con Federica Segalini di Nuovi ConTesti (una cosa spaziale che consiglio a chiunque lavori sulla propria comunicazione) e parlando di voce abbiamo toccato di nuovo l’argomento ricordo sonoro.
Perché sai, a volte non ci pensiamo ma il contesto in cui nasciamo e di cui ci nutriamo da piccoli, influenza molte delle nostre azioni e delle nostre abitudini da grandi, giusto?
Così è anche per il suono, per la voce, e quindi per il cantato e forse in maniera più manifesta per il parlato.

I suoni con cui cresciamo, sono suoni di cui – in potenza- ci circondiamo o ricreiamo, e in un percorso individuale sulla voce, prendere consapevolezza del nostro rapporto con un determinato tipo di suoni e di voci, è importantissimo per riuscire ad andare oltre a eventuali blocchi di voce o difficoltà di emissione. Questo ovviamente sempre nel rispetto dell’estensione e della morfologia individuale della voce.
Parlo principalmente di voce perché è il mio focus, ma come vedi sto includendo i suoni nel discorso perché potremmo parlare in maniera più estesa di memoria sonora ed emotiva, ma voglio rimanere più centrata sull’emissione vocale.

Per me poco cambia se la voce viene usata per cantare o per narrare, perché a monte del modo in cui la usi, al di là della performance e della tecnica, usare la voce -secondo il mio personalissimo punto di vista nonché etica formativa- significa conoscere la voce, significa conoscersi, sapersi ascoltare, ma in maniera molto più profonda di quanto si possa credere.
E’ ovvio poi che la voce è uno strumento, giusto? E come tale può essere usato oppure no, con un obiettivo personale quindi non è detto che tutti usino questo strumento allo stesso modo, anzi.
Qualcuno può studiare la voce solo con una finalità tecnica e performativa, qualcuno può usarla solo a scopo introspettivo.

Quindi non voglio partire dal presupposto che chiunque faccia un lavoro sulla voce stia facendo per forza un lavoro su sé stesso (stiamo freschi: vuol dire praticamente credere agli unicorni, eh?) ma credo che un buon lavoro sulla voce apra le porte ad un lavoro su di sé e, che quando due cose camminano di pari passo è incredibile il risultato che si ottiene sulla voce.
Guarda a partire dal semplicissimo “non mi piace la mia voce quando la sento registrata” possiamo aprire infiniti capitoli su quanto liberatorio sia (e intendo anche a livello respiratorio e fonatorio) accogliere e accettare la propria voce.

Perché la voce è davvero una parte importante della nostra identità: è lo strumento attraverso il quale raccontiamo dei nostri mondi interiori, ma letteralmente, perché diamo voce ai nostri pensieri parlando.
Ed è uno strumento direttamente collegato con le nostre emozioni: le cose “ci lasciano senza parole” o “senza fiato” (quindi senza voce), “la voce rotta dal pianto o dall’emozione”; ogni nostra emozione è traducibile in voce, in suono, ed essere consapevoli di quel suono è importante, perché significa conoscere profondamente il modo in cui suoniamo nel mondo.

Il ricordo sonoro/vocale che abbiamo che abbiamo e come questo ci influenza (in positivo o in negativo a seconda dei casi) è una tappa per me fondamentale per poter indagare davvero la voce e conoscerla sempre più e quindi usarla in maniera funzionale ed efficace.
Dare voce a un contenuto, audiolibro o podcast che sia, comporta inevitabilmente una trasmissione emotiva attraverso il suono della voce.

Ti faccio un esempio abbastanza lampante: qualche giorno fa ho registrato per un cliente delle brevissime poesie da usare come contenuto promozionale per il lancio di una raccolta; ecco erano poesie molto molto toccanti, profonde, raccontavano di un dolore davvero vivo, accompagnate da una musica molto toccante, e abbiamo dovuto giocare tantissimo con la voce (e ho avuto anche due registi davvero attenti) per rendere quelle emozioni vivide senza condirle o vestirle con sfumature e colori che non avrebbero fatto uscire a dovere il testo.
Ma è stato difficile non mettere in risonanza la mia voce con quel dolore, perché era un dolore che conoscevo e che rischiava di uscire dalla mia voce ma in quel caso era richiesto alla voce di stare leggermente al di sopra di quel dolore.
L’anno scorso ho avuto la fortuna di lavorare in studio con Gabriele Donolato, un doppiatore davvero fantastico e una persona davvero molto centrata, con un lavoro di consapevolezza sonora immenso e una sensibilità vocale coltivata così bene che ti assicuro, qualsiasi cosa gli sentissi fare c’era dentro una profondità d’animo legata ad una professionalità che non sono per niente scontate e che fanno la differenza tra bravura fine a sé stessa e anima messa sul piatto.
Sono certa che se te lo dico in musica capisci subito cosa intendo: ti sarà capitato almeno una volta di sentire un/a cantante che ti fa dire “brava è brava eh? però, non lo so non mi arriva, non mi emoziona”

Ecco intendo proprio quella roba lì, che comunque non è una legge universale: ti ricordo gli unicorni di prima, non è che se emozioni la gente allora non puoi assolutamente essere stronzo o corrispondi allo stereotipo del buddista zen, no.
Però lavorare sulla voce ti da questa straordinaria opportunità di indagare dentro te stesso, a partire sì, anche dai suoni e dalle voci della tua infanzia, ripercorrendo tutta quella memoria sonora che può avere in qualche modo condizionato – in bene o in male- la tua emissione vocale.
E non è obbligatorio cogliere questa opportunità: lavorare sulla voce è relativamente semplice; trovi un insegnante in linea con te, ti impegni, ti eserciti e il gioco è fatto.

Ma per me è importante dirti che ci sono anche altri modi di lavorare con la voce e sulla voce, altri livelli se vuoi, e scegliere di farlo è una responsabilità individuale, una scelta.
Tutto è una scelta, in effetti. Scegliamo sempre, anche quando scegliamo di non scegliere.
Anche quando scelgo di fare un episodio sull’importanza della protezione del nostro udito e finisco per parlare di quanto i silenzi delicati di mio nonno e mia nonna che cantava in cucina hanno influenzato la mia sensibilità sonora e vocale.

E scelgo di esporlo al mondo perché penso sia giusto così.